Sul menù di una catena di locali di cucina napoletana, Rossopomodoro con centinaia di esercizi in Italia e nel mondo, alcuni piatti hanno un simbolo di
Slow Food che certifica specialità di particolare valore storico in relazione a prodotti del territorio.
A proposito di menù c’è da dire che normalmente le scelte ed i giudizi riguardanti i piatti della ristorazione si muovono nel campo del più o meno buono, raffinato, delicato, equilibrato, saporito, insipido, innovativo, classico, interessante etc.
Oggi, con una nuova attenzione alla
Dieta Mediterranea, riconosciuta dall’UNESCO come patrimonio dell’umanità, si pone il problema di rendere visibile e percepibile, anche una potenzialità di tipo dietetico del piatto, valore fino ad oggi ignorato, nel rispetto però di una gradevolezza e possibilmente anche di riferimenti alle tradizioni ed al territorio.
L’amico scrittore di alta cucina, Beppe Lo Russo, tempo fa’ escludeva che fosse possibile coniugare alta qualità e buona gastronomia con la dietetica.
Era evidentemente indissolubile l’associazione della dietetica all’insipido, scondito, noioso, sgradevole, all’opposto della trasgressione, più consona al piacere e all’alta cucina.
In controtendenza a questo tipo di certezze si pone ora il problema di verificare se è invece possibile individuare delle pietanze caratterizzate da gradevolezza, buona presentazione, ricchezza di sapori, riferimenti al territorio e a tradizioni, ma anche rispettose di concetti di sostenibilità e dei principi della Dieta Mediterranea, nella sua accezione più moderna e cioè non riferita al più buono e popolare, ma specificatamente pensata per combattere l’obesità e patologie correlate, con l’obiettivo di assicurare quella longevità che il dr Ancel Keys trovò nell’alto Cilento nel secondo dopoguerra dove alla fine, si ritirerà a vivere in pensione, arrivando ai 100 anni, come allora molti degli abitanti di quei posti.
Una più corretta definizione di Dieta Mediterranea, anche se non specificamente citata, la troviamo rappresentata graficamente nella piramide che contiene i suggerimenti del Dipartimento della Nutrizione dell’Università di Harvard del 2005, che rivoluzionano completamente la precedente impostazione del 1992, delineata all’origine da Ancel Keys.
Nella nuova definizione si vede che nel minuscolo triangolino in alto, che vuol dire “
da assumere con grande parsimonia”, compaiono: carni rosse, burro, prodotti elaborati da grani raffinati, pane, paste e riso bianchi, patate, dolci e bevande zuccherate, oltre al sale.
Alla base troviamo tante verdure e frutta, olio d’oliva in abbondanza, altro che “
scondito” (ma proibiti i grassi animali ed i grassi trans, cioè idrogenati) e tutte le varianti dell’uso di grani integrali interi o trasformati in pane, pasta ed altre preparazioni comunque integrali.
Subito sopra troviamo legumi, noci, mandorle ed altri semi, il tofu, oltre a pesci, crostacei, molluschi ed anche pollame e uova. Un uso limitato alla fine per formaggi, latte e yogurt.
Tutto questo sembra la fotografia dell’alimentazione della Puglia di altri tempi e quindi non sembra limitante per inventare piatti che possano riferirsi a queste raccomandazioni, che, per inciso, negli USA non sono diventate ufficiali, perché osteggiate dalle Lobby dei produttori dei cibi penalizzati da questi criteri.
In Italia invece sono direttamente i produttori che si preoccupano di redigere raccomandazioni e guide dietetiche, come ha fatto la Barilla.
Oggi proprio Slow Food potrebbe ricodificare le regole, senza incorrere in Patents infringments, oltre a segnalare con un nuovo simbolo piatto e/o operatori che permettano al cliente di scegliere tra il certificato “
Corretto” ed il golosamente “
Trasgressivo”.
Ho già raccolto segnali di adesione da alcuni ristoratori colti che mi hanno promesso di cimentarsi in questa sfida, avendo già molti esempi significativi nei loro menù.